episodio 12. libertà di satira in marocco

foto di brahim dahbani

circa un mesetto fa, il 22 marzo scorso, il tribunale di parigi ha assolto il giornale francese “Charles Hebdo” che aveva ri-proposto le famose vignette su maometto, originariamete pubblicate in danimarca nel 2006 e che all’epoca avevano causato reazioni molto contrastanti: simpatia incondizionata, opposizione violenta, indifferenza totale.

di questa vicenda si è detto e scritto molto, non starò certo adesso qui ad aggingere la mia inutile voce al già chiassoso coro di esperti e opinionisti di ogni sorta che all’epoca ci hanno assordato con le loro analisi. inutili come la mia, ma molto più rumorose. sono ovviamente felice che parigi abbia assolto il giornale, ma penso che le vignette non andassero pubblicate. questione di rispetto: se siamo amici e ho voglia di fare una battuta volgare, la faccio su di me e non su di te. sarà più facile riderci sopra per entrambi e alla prossima occasione la farai tu più volentieri. questione di stile, peraltro.

comunque, dicevo, l’immancabile dibattito che dopo la pubblicazione delle famose vignette ha impestato i giornali e i media europei, come al solito ha distratto le persone dalla realtà, offrendo spazio solo ad estremismi per tutti i gusti e non permettendo di conoscere aspetti assai più interessanti. una cosa che per esempio è rimasta fuori dalle discussioni del momento, almeno per quanto abbia potuto vedere io, è paradossalmente la questione più interessante: nei paesi arabi le persone hanno un gran senso dell’umorismo e ridono e scherzano in continuazione su tutto, soprattutto sulla santa trinità dei tabù: politica, sesso e religione.

Nel Maghreb, questo è vero un po’ ovunque. In Algeria, paese nel quale peraltro il dibattito politico e religioso è tutt’altro che tranquillo, la gente scherza anche sul presidente, quel presidente che controlla gran parte dei mezzi di comunicazione. Una barzelletta raccontata da un amico algerino:

Il figlio di un potente uomo politico algerino chiede al padre: “Papà, da grande voglio essere importante”. Gli risponde il padre: “Bene figlio mio, con le mie conoscenze posso farti diventare presidente”. Il figlio: “No… troppa responsabilità”. Il padre rilancia “Beh, allora potrei farti diventare Ministro”. “No” risponde il figlio, “anche come Ministro avrei molto lavoro e molti impegni”. “Allora ambasciatore” propone sconsolato il padre. “No, anche l’ambasciatore alla fine ha delle responsabilità”. Il padre tenta l’ultima carta: “Il parlamentare?”. “No, troppa responsabilità”. Il padre sconsolato: “Allora la vedo dura, per tutti gli altri lavori bisogna aver studiato”.

Più o meno sullo stesso tono, la storiella (che andrebbe mimata) che parla del presidente algerino che torna da un incontro internazionale con un pallino rosso. i suoi collaboratori gli chiedono il perchè e lui risponde. “durante un colloquio con un lider indiano, gli ho chiesto: ‘come fate ad avere tutto questo consenso?’, e lui mi ha risposto indicando in mezzo alla fronte: “ci vuole questo”.

L’umorismo Maghrebino non è un fenomeno locale. In Francia, uno dei nuovi comici più acclamati è Gad, Marocchino ebreo di Casablanca, che esordisce nel 95 con uno spettacolo teatrale autobiografico e adesso si dedica al cinema e teatro, riempiendo le sale più importanti. A Casablanca, manco a dirlo, i biglietti per le sue serate vanno esauriti con mesi di anticipo.

Ma a parte i talenti dello spettacolo, anche e forse soprattutto nella vita quotidiana delle persone normali, l’umorismo è presente in ogni momento. In una società nella quale le persone passano molto tempo insieme (gli uomini al caffè, le donne a fare visita ai conoscenti) e sono in grado di cominciare una conversazione quasi con chiunque in qualunque momento, le battute, le barzellette, sono all’ordine del giorno. sono la risposta ai problemi della vita, dalle cose più futili a quelle più gravi, passando, ovviamente, per quelle proibite. Ce n’è per tutti: il sesso, i potenti fino a dio stesso. Con le barzellette si esorcizza la paura: si prende in giro il despota repressivo che negli anni di piombo ha eleminato fisicamente ogni opposizione, si prendono in giro i terroristi bombaroli, si sfottono gli ipocriti tabu sul sesso.

Un giornale marocchino (Nichane, che significa “dritto”, in dialetto) ha recentemente pubblicato un articolo su queste barzellette, sul ruolo che ha la satira e l’umorismo nella cultura marocchina giocando il duplice ruolo di valvola di sfogo per dar voce a ciò che non si può teorizzare ma anche il ruolo di motore che contribuisce al cambiamento sociale, facendo avanzare la mentalità e il senso comune. L’articolo, piuttosto soft, si limitava essenzialmente a riportare le migliori di queste storielle (una decina in tutto) e abbozzare qualche commento. Alcune delle migliori:

La Francia apre le frontiere al Marocco, eliminando il visto. Tutti i Marocchini si precipitano correndo. Il Re in capo a tutti, si gira per dire al suo popolo: “L’ultimo spenga la luce”.

Il Re MVI cerca suo padre nell’aldila. Cerca nel computer del paradiso, cerca in quello dell’inferno e non trova nulla. Allora va a domandare a Dio. Dio gli chiede il numero di identità,controlla nel suo computer e poi dice: “No, questo non l’ho fatto io”.

Un islamista quando culla sua figlia le dice: “Bombina mia”.

Cosa fa un islamista quando scopre di essere omosessuale? Inizia a portare il velo.

Si dirà: ma se davvero c’è la satira trova questo spazio sui giornali in paesi come il Marocco, come mai se la sono presa tanto per la storia delle vignette danesi? La satira ha spazio nella vita quotidiana, ma nei giornali già molto meno. Per la cronaca, Nichane dopo quell’articolo, ha rischiato la chiusura. L’articolo ha creato scandalo e non c’è quasi marocchino che, leggendolo, non abbia sussultato. Il giornale è stato sospeso, processato e alla fine condannato a pagare una multa. L’opinione pubblica internazionale ha visto in questa vicenda l’ennesima limitazione della libertà di espressione in Marocco e un indicatore di quanto poco tutelati siano i diritti dei giornalisti in questo paese. Alcuni osservatori locali hanno invece sottolineato come la pena alla fine sia stata tutto sommato ridotta e, a conti fatti, il governo marocchino sia riuscito a fare contenti tutti: il giornale esiste sempre, i giornalisti possono lavorare, l’articolo è comunque stato pubblicato e il decoro è salvo, avendo ufficialmente “preso provvedimenti”. La relativamente blanda punizione inflitta ha permesso di non lasciar spazio agli islamisti nell’esclusiva della tutela della morale.

Non abbiamo tuttavia ancora risposto alla domanda di prima. I Marocchini hanno senso dell’ironia e accettano la satira, o no? Raccontano barzellette sulla religione ma si infiammano contro le vignette danesi, ridacchiano sul sesso ma si scandalizzano per un articolo di giornale che ne parla. Contraddizioni? Forse. Uno dei punti che permette di dirimere la questione, è comprendere la differenza tra linua scritta e lingua parlata. In Marocco, come si sa, la gente parla un dialetto dell’arabo che, per vari motivi che qui sarebbe lungo analizzare, è una lingua quasi a parte, principalmente orale, non codificata di cui si possono trascrivere i suoni con caratteri latini o arabi, ma senza poter fare riferimento ad una grammatica formale o ad alcun canone scritto. Il dialetto Marocchino è la lingua “ufficiosa” del paese, che tutti parlano e nessuno scrive. Questo porta ovviamente ad una specie di schizofrenia linguistica a all’utilizzo di registri comunicativi diversi a seconda che si usi il mezzo scritto o quello orale. La lingua parlata è una lingua che non trova rispondenza in quasi nulla di scritto e veicola quindi idee e concetti che per lo più restano solo “detti”. Il giornale Nichane ha messo su un foglio quello che la gente dice per strada, in casa. Ha fermato per sempre tra l’inchiostro e la carta le idee volate da una bocca all’altra. Ma l’ha fatto in modo molto più radicale di quanto si possa fare con un semplice articolo, l’ha fatto usando la lingua di tutti i giorni, usando il dialetto. Viste su carta, le barzellette sui barbuti, il Re e Dio devono essere apparse con una violenza difficile a comprendere per noi europei. E tuttavia la gente le dice, le conosce, le ha sulla bocca. Ma vederle su carta, ha creato scandalo, shuma, vergogna.

Del resto, in Marocco la lotta per la libertà di espressione è cominciata proprio violando i tabù della lingua scritta. Negli anni novanta Aboubakr Jamaï, ex-direttore de le Journal Hebdomadaire, pubblicò un articolo in cui si riferiva al Re semplicemnte chiamandolo con il suo nome, Hassan II, senza le usuali formule “che Dio lo preservi” o “che Dio lo abbia in gloria”. Vedere scritto il nome del Re cosi, secco, senza salamelecchi al contorno fu per la sensibilità Marocchina uno shock, e nella battaglia per la libertà di espressione in Marocco, un grande passo in avanti. Purtroppo la battaglia è ben lungi dall’essere conclusa, anzi. I censori in questi ultimi tempi registrano importanti vittorie. Una su tutte lo scorso gennaio, con le dimissioni proprio di Aboubakr Jamaï dalla direzione del Journal Hebdomadaire, strozzato da una impossibile multa milionaria che, indirizzata alla persona di Jamai, rischierebbe di compromettere l’esistenza del giornale se ne restasse alla guida. Jamai, perseguito, lascia il giornale per lasciarlo vivere.

E’ un’impresa difficile quella di fare avanzare il senso comune, garantendo la libertà di espressione e il rispetto di tutti i valori. Il Marocco, come tutti, muove i suoi passi incerti, spesso contraddittori, sempre conquistati con fatica grazie al talento e alla dedizione e alcuni valorosi. Senza voler nascondere i problemi che ci sono, la difficoltà di parlare liberamente su alcuni temi in Marocco, noi europei e noi italiani in particolare, in questa fatica non possiamo non riconoscerci e, al di la di ogni presunzione, sentire di esserne coinvolti.