episodio 20. no country for me

i giardini dell'orticultura a firenze

del pluripremiato film dei fratelli cohen, mi sono piaciuti solo la pettinatura di bardem (geniale) e il titolo. per il taglio di capelli ne parlerò con il mio barbiere (ma parla solo tamil e non so se ci capiremo), mentre per il titolo faccio da solo e me ne approrio qui. sarà grave?

sul resto del podcast non ho molto da dire. ci sono vari errori come al solito e alla fine resto sempre con il dubbio di non essere riuscito a dire veramente quello che volevo. le cose cambiano mentre le scrivi, faccio fatica a tenerle ferme. ma poi perchè?

no country for me.

quando viaggio la notte in macchina spesso mi perdo nel buio dei miei pensieri. concentrato sulla strada, attraverso lunghi tratti percorsi senza quasi incontrare una luce, lentamente perdo il senso di dove sia. la strada, nel buio, diventa un luogo talmente anonimo e senza vita che senza rendermene conto inizio a riempirla di riferimenti noti e familiari. il buio della costa tropicale tra pondicherry e karaikal diventa quindi la versilia, con tanto di apuane e cave di marmo che scorrono al mio lato; l’oscurità arida della campagna marocchina tra khouribga e casablanca diventano i colli senesi decorati da file di rigorisi cipressi; il silenzio delle valli tagliate dalla strada tra durazzo e tirana in albania diventa l’autostrada dell’appennino tosco-emiliano con le sue continue gallerie che ad ogni passaggio fanno cambiare il tempo tra il sole e le nuvole. i luoghi che conosco entrano nelle mie immagini senza che riesca a controllarli. basta un po’ di buio per farli emergere dal nulla, come se fossero sempre stati li, come se di giorno uno potesse non sentirsi ridicolo a dire: “pondicherry sembra viareggio”. che poi non è credibile nemmeno di notte, ad essere onesti.

quando l’aereo atterra provo sempre un brivido particolare. guardo dal finestrino per cercare segni del posto in cui sono arrivato. mi chiedo: “se non sapessi dove sono, quando riuscirei a rendermene conto solo guardando fuori?”. cerco con ansia un segno, ma ancora prima di trovarlo lo sento. sono a casa.

tornare in italia ogni tanto è bello. la mia casa e la maggior parte dei miei affetti sono a firenze. è li che mi piace tornare, quando posso. di solito appena arrivo faccio due passi in strada per ritrovarmi nelle strade di sempre, come se fossi stato li l’ultima volta il giorno prima, come se in testa non avessi ancora i suoni e i colori di un posto che da qui dista migliaia di miliardi di milioni di…. anni. luce. giusto 5 minuti, un giretto breve, tanto per far vedere a mio figlio le strade e i posti che mi appartengono. ci fermiamo in un giardinetto innoquo. poche panchine, un po’ di ghaia e qualche gioco per bambini. andiamo dritti allo scivolo, che a pietro piace da morire. ci sale e scende dal verso giusto e al contrario, camminando, striciando, scivolando di faccia, di gambe insomma, un rapporto intenso. pietro non si rendo conto che sullo scivolo dove giochiamo cosi’ intensamente, c’è bella evidente una scritta inquietante, che non posso fare a meno di leggere e rileggere ogni volta che lui sale, scende e risale. con un pennarello che di solito (?) lascia tracce tipo “TVB” o “Ti amo” o “simo IV B sei un super fico”, sullo scivolo a caratteri cubitali qualcuno a scritto: “bruciamo gli zingari i negri e gli ebrei, firenze dai dai dai”, decorando il tutto con un paio di cuoricini e due note, come ad indicare che si tratta del testo di una canzoncina. ora, non è certo la prima volta che vedo una scritta razzista su un muro, ma vedere questa scritta che sembra proprio fatta da dei ragazzini in un posto dove sto giocando con mio figlio, mi fa impressione. mi domando se devo fare qualcosa. tipo togliere il pannolino a pietro e aspettare che ci faccia sopra i suoi bisogni. ma non posso usare mio figlio per le mie piccole battaglie. allora potrei abbassarmi i pantaloni io e provvedere direttamente. oltretutto sono sicuro che ho una mira migliore. ma qualcosa mi dice che non sia una buona idea. non vorrei mai che poi mio figlio non comprendesse il mio gesto nella sua completezza e prendesse da grande il vizio di orinare su tutti gli scivoli che incontra. alla fine non facciamo niente. dopo qualche minuto ce ne andiamo a fare quattro chiacchiere con un bambino filippino che gioca con il suo papà, pure lui filippino. desideroso di fare conoscenza, il signore mi saluta gentilmente e mi chiede se abitiamo nel quartiere, che lavoro faccio nella vita e se la mamma è a casa o al lavoro. in realtà non mi chiede tutto questo, più che altro me lo dice come se avesse già deciso che le risposte erano quelle da lui suggerite o come se non potesse essere altrimenti. nel suo sguardo c’è una richiesta di normalità, siamo due padri che si incontrano ai giardini e fanno conversazione, come due normalissimi vicini di casa. traccheggio un po’ poi provo a dirgli che non viviamo a firenze ma in india, dove lavoriamo nella cooperazione e che la mamma è appunto in india che ci aspetta. il signore mi guarda senza smettere di sorridere. non sono sicuro che abbia capito, ripete “india” come se chiedesse: “è prima o dopo prato?”. mentre sto per dirgli: “no, india, quella delle tradizioni millenarie, quella del miliardo di persone, quella della crescita all’8%, quella dove 10 anni fa si moriva di fame e che che tra 10 anni, secondo la CIA, sarà la più grande potenza economica mondiale”. non faccio neanche in tempo a finire il mio pensiero che lui mi saluta dicendo: “allora arrivederci, ci vedremo ai giardini”. rispondo: “con piacere”. non aveva capito.

sono tornato a casa mia da poche ore e già mi sono reso conto di non riuscire a riconoscere i giovani della mia città e non aver molto da dire con i suoi nuovi abitanti. si, d’accordo, magari sono questi giardini che non vanno bene. in realtà la mia italia è sempre la stessa, è sempre una terra accogliente, una terra che ha conosciuto l’amaerezza dello sradicamento nella migrazione e che quindi oggi sarà capace di trovare una forma pacifica e tollerante di convivenza tra gente proveniente da mondi diversi. vero? ma certo, deve essere cosi’. si, d’accordo, alle ultime elezioni si è parlato tanto di sicurezza, i politici dicono che c’è un senso diffuso di insicurezza. ma in fondo le cose vanno bene, non è vero? gli italiano in fondo sono brava gente, non è vero?

i giorni passano in italia, nel mio paese, a casa e giornali e tv non smettono di parlare della difficile convivenza con gli stranieri. non si sanno comportare, creano problemi, hanno abitudini strane. in poche parole: sono diversi. e hai un bel dire che si deve essere aperti. questi rubano i bambini. proprio cosi’. tutti i giornali ne parlano quindi deve essere vero. sono quelli la, i rom, quelli che una volta si chiamavano zingari, che poi per un periodo si chiamavano nomadi e poi qualcuno ha sparso la voce che avessero un nome anche loro e adesso li chiamano tutti rom. comqune, quella gente li, rubano i bambini. ne hanno visti diversi nei supermercati andare in giro con fare sospetto e provare a rubare dei bambini. per fortuna li hanno scoperti in tempo, prima che davvero li rapissero, ma è chiaro che lo stavano facendo, io non li ho visti e non conosco nessuno che li habbia visti, ma mi hanno detto che qualcuno ne ha le prove. o comunque un forte sospetto.

chiudo il giornale e mi domando cosa sia successo. non riconosco più neanche i giornali del mio paese. tanti anni fa, quando a firenze ci abitavo e non ci tornavo in vacanza, i rom erano la mia seconda famiglia. dopo il mio ufficio, il campo “poderaccio” era forse il posto dove passavo più tempo. la storia è lunga e meriterebbe un racconto a parte, ma per farla breve, diciamo che allora con alcuni amici, avevamo fatto un’associazione con degli adolescenti rom. giravamo per l’italia documentando le condizioni di vita nei campi, per poi poterle raccontare nelle scuole e a chiunque volesse ascoltarci. non era una denuncia, era un modo per fare avvicinare dei mondi lontani. eravamo un bel gruppo di italiani e rom ed è stata un’attività intensa che ci ha impegnato per oltre tre anni.

neanche allora godevano di un’ottima reputazione, anzi, il senso del nostro lavoro era far conoscere la vita dei rom nei loro aspetti normali e quotidiani, raccontata dagli stessi ragazzi del poderaccio, senza nascondere i problemi, ma raccontando anche le cose belle e cercando soprattutto di sfatare i miti più frequenti, fonti di clamoriso equivoci. l’equivoco più clamoroso era ed è tutt’ora quello che i rom siano “nomadi”. a firenze il campo poderaccio veniva chiamato “campo nomadi”. mi immagino quando l’hanno costruito la faccia delle persone che ci dovevano entrare. ogni tanto penso a come deve essere andata, immaginando il funzionario di turno che li incontra e gli dice: “ecco, questo è il posto dove starete per un po’, è il campo nomadi”. e i rom: “e dove sono i nomadi?”. e il funzionario: “ma come, siete voi, no?”. “no, veramente noi veniamo dalla ex-jugoslavia dalla quale siamo scappati a causa della guerra. li avevamo le nostre case, dove abitavamo da generazioni e dove saremmo rimarsti se non ci fosse stata la guerra.”.

a parte il mito del nomadismo, non ci eravamo però mai dovuti occupare di quello “gli_zingari_rubano_i_bambini”. quello era veramente una roba ormai superata, era una specie di credenza medioevale tipo credere alle streghe. e invece ultimamente sembra tornata in voga, ammiccata tra i discorsi della gente in strada, sbraitata scompostamente da una scritta a pennarello su uno scivolo per bambini, o normalizzata da giornalisti ignoranti. se non fosse tragica, questa cosa di credere che i rom rapiscano i bambini mi farebbe ridere perchè mi viene in mente una delle prime volte che sono stato al campo poderaccio. erano freddi pomeriggi di inverno che passavamo nei container sistemati vicini al campo e attrezzati come auletta dove con alcuni volontari, facevamo doposcuola ai bambini del campo. uno dei miei primi giorni, forse proprio il primo, a metà pomeriggio salta la luce. succedeva spesso che la luce andasse via al campo e nelle corte giornate di inverno, il container si immergeva immediatamente in un buio profondo. ricordo i bambini che cominciano ad urlare isterici finchè non ritorna la luce. colpiti dalla reazione che sembrava un po’ esagerata (eravamo comunque in un luogo conosciuto con le porte aperte e in un contesto abbastanza rilassato) chiediamo perchè si fossero spaventati tanto e il tenero “rambo” (un bimbo che allora aveva 5 anni) candidamente, ci risponde: “ho paura che venga la polizia a rapirci”. ecco fatto. i bambini rom temono che i poliziotti li rapiscano. ovviamente gli abbiamo spiegato che non dovevano aver paura della polizia che i poliziotti sono buoni e stanno li per proteggerci tutti quanti e che questi dei poliziotti cattivi che rapiscono i bambini sono sciocchi pregiudizi che non corrispondono al vero e basta andare a parlarci con un poliziotto per rendersi conto che sono persone normali, con i loro pregi e i loro difetti, come tutti noi. ma i pregiudizi, si sa, sono duri a passare e non so quanto il nostro corso accelerato di educazione civica sia stato efficace.

da questo incontro con gli amici rom, per tutto il tempo che è durato, e per tutte le forme che ha assunto, ho imparato molto. ho imprato qualche cosa sui rom e molto su me stesso. di questo gli sarò per sempre grato.

il mio tempo in italia trascorre sereno, assorbito dal ritrovare famiglia e amici. ma mi rendo conto di parlare poco di me e chiedere ancora meno agli altri. io e il mio mondo ci ritroviamo e non ci facciamo domande, quasi con il timore di scoprirci cambiati, di scoprirci non più fatti l’uno per l’altro. guido silenzioso per i colli senesi contemplando senza fiato la morbida presenza dell’uomo accanto alla bellezza pacata dei cipressi, salgo lungo l’autostrada della versilia, cercando dalla costa le vette conquistate anni fa nel profilo bianco delle apuane, poi seguo l’appennino il valico, i viadotti i fiumi. gli angoli di montagna dove di accumula sempre un po’ di neve in inverno. queste strade sono proprio come le vedo nel buio della notte tropicale. o balcanica, o del deserto. è strano, quando ero la’ sentivo una nostalgia profonda dell’italia, tanto da immaginarmi di essere su queste strade. adesso che ci sono mi domando se le riconosco ancora, o se questo paese non sia cambiato troppo.

mentre la macchina corre, mi vedo nella storiella dell’uomo che guidando in autostrada sente la radio che irrompe con un messaggio: “urgente, c’è un pazzo che guida contromano in autostrada, fate attenzione”. e l’omino al volante pensa: “uno? saranno duemila!!”.

4 thoughts on “episodio 20. no country for me

  1. Sono tornato a farmi un giro sul sito (in cerca di un nuovo episodio) e mi sono accorto che non avevo commentato questo.

    Ogni volta che ti ascolto mi stupisco.. mi stupisco di come alla fine dell’episodio precedente mi ero detto “e` la miglior cosa che ho mai ascoltato” e tu ogni volta mi smentisci.

    Dopo l’acquario ero convinto che avevi raggiunto il massimo del massimo, l’eccellenza. E adesso.. mi devo ricredere, non l’avevi ancora raggiunta. Il bello e`.. che probabilmente se ora ti dicessi che l’hai raggiunta con questo, all’uscita del prossimo episodio mi dovrei rimangiare quello che ho detto, e quindi non te lo dico.

    Ovviamente (che sia poi cosi ovvio?!) condivido tutto e a pieno quello che hai detto. E ammetto che vedere/sentire/leggere cose del genere nella nostra Toscana mi fa venire i brividi. Forse la nostra Toscana non esiste piu`.. o forse non e` mai esistita.. ci illudevamo soltanto di essere diversi.

  2. caro nissardo,
    i tuoi commenti sono sempre un bellissimo regalo. la nostra toscana non so dove sia finita, ma son convinto che esista sempre, anche se è ben nascosta in questo momento. bisognerà tirarla fuori, e con lei tutta l’italia, ma non basterà essere in due (e infatti tu ti stai già dando da fare per aumentare il numero delle persone ragionevoli… a proposito: congratulazioni!).

    per gli episodi (merda, sono sempre più in ritardo), ho appena finito di scrivere il prossimo. un’idea che da tanto avevo in testa e non ero riuscito a scrivere. niente di eccezionale, solo una tranquilla quotidianeità. avevo in programma una puntata sul fenomeno dei suicidi in india, ma poi mi sono detto che veramente ‘sto podcast faceva due palle quadre, e quindi sono stato più sul leggero.

    spero di riuscire a registrare e pubblicare tutto domani!

Comments are closed.